Massimiliano Castellani (italiano)

Giorgio Conta

MASSIMILIANO CASTELLANI

A TEMPO Di JAZZ, IL TEMPO AMICO Di CONTA


 

 


Round midnight. Scrivo di notte, abbasso la musica e ascolto una tela di Giorgio Conta. Non è follia, né il sogno di una notte di mezza estate. Ragtime... “Sotto le stelle del jazz, ma quanta notte è passata... Marisa, svegliami, abbracciami, è stato un sogno fortissimo”, canta Paolo Conte in Sotto le stelle del jazz. Fu un sogno anche per me scoprire l’universo jazzato dell’arte di Conta. È stato come quando a un’edizione di Umbria Jazz a Perugia ho assistito per la prima volta a un concerto del piano suadente di Brad Mehldau. Ho profonde radici umbre e posso assicurare che nella mia terra le note jazz sono rami di quercia che dal colle della Rocca Paolina si agitano al vento d’estate, fino a sfiorare la facciata – invernale – del duomo di Orvieto. Poi si inerpicano su, per gli uliveti argentati che incorniciano Assisi e Spoleto e vanno a tuffarsi nelle acque dolci del Trasimeno. Sono luoghi, questi, che Giorgio conosce bene, perché il ritmo che imprime ai colori si alimenta di bebop spirituale.

È un approccio francescano anche quello che lo ha portato sui sentieri di quei rabdomanti di sogni vellutati che sono i jazzisti. Perciò, l’invito al viandante che si imbatte nella sua arte è: fermati davanti a queste tele, incolla l’orecchio per un attimo al disegno. E ascolta. Che groove c’è qui dentro... È il ritmo della vita, il sangue pazzo di quei musicisti che viaggiano nella notte, da Manhattan a Cinisello Balsamo. Capolinea della periferia milanese, qui qualche anno fa con Giorgio e il fraterno amico Luigi Marsiglia mettemmo in piedi un “Trio”. L’unico capace di suonare uno strumento era Conta, ma noi lo abbiamo accompagnato in un percorso metropolitano, salendo oniricamente su un tram di desideri. Biglietto sola andata, da Villa Ghirlanda a New Orleans. Durante quel viaggio è stato come partecipare all’incisione di un disco. L’arte-jazz di Conta vive di improvvisi d’autore e nel suo studiolo di Monclassico sa creare atmosfere da Blue Note. Un concerto di statue lignee dall’anima cool, appena uscite dalla maestria dell’intagliatore della scuola trentina. Così, sotto calici di stelle, con Luigi e Giorgio, ci siamo guardati in faccia, per un attimo, e ci siamo davvero sentiti “Trio”: origine anche dell’arte che si fonde con la musica del mondo, in un tempo che non era più quello reale, ma jazz.

Una session che chiede strada, sabbia, mare. È un viaggio, un volo a planare su bianche scogliere e orizzonti infiniti, portando nella custodia l’amore per la vita, assieme al sax, magari quello matto e irregolare di Massimo Urbani. Appena tramontano le luci è un cammino incantato, per poter inseguire il piano solo dello struggente Luca Flores o quello giocoso-samba di Stefano Bollani. Ritratto. Alti e bassi, su e giù per la nostra terra, che è tutta provincia: sempre più in lotta, per non diventare arida, né meccanica. Ritroverete su queste tele la rabbia swing del batterista che litiga con il contrabbassista, mentre la chitarra anarchica si prende la scena. Assolo di Miles Davis. “Ehi man!”. Perché si può stare dentro il gruppo o uscirne per rientrare nella piccola orchestra, ma questo spaccato sonoro che ci consegna Giorgio Conta è un dono perduto: la sete, la fame, il senso irrinunciabile della libertà dell’uomo. La stessa che da un secolo in qua porta nelle nostre vite il jazz. Sporco o acid che sia, una volta che entra nelle vene rende possibile ciò che per le strade delle nostre città sta diventando utopia: la condivisione pacifica dello stesso universo. Jazz fusion: l’arte dell’incontro con l’altro. Perché nel “jazz uno di quindici anni può stare sul palco a fianco di un ottantenne”, ricorda il saggio Wynton Marsalis. Questi quadri che stasera, ogni sera, “suoneranno” per voi, richiedono il silenzio e la penombra dei sensi accesi. Pretendono la giusta attenzione. Riascolterete I should care cantata da uno struggente Chet Baker abbracciato alla sua tromba, unica vera compagna, fedele fino alla fine. I colori di Conta sono sobri, non ubriacano, ma il suono che esce dalla sua performance sì. È assenzio. È “assenza più acuta presenza”.

I suoi jazzisti sono gli ultimi incantatori di questo mondo che non viaggia più al ritmo delle emozioni, il cuore si è fermato e fa fatica a ripartire. È stanco. Perché? Perché ci vuole più jazz nel bicchiere vuoto dell’anima. E allora eccoli che, con un buon ballon di Teroldego, quel “jazz tonic” ce lo versano i suoi personaggi animati, i suoi artisti maledetti con i loro strumenti celestiali, anche quando sono arrugginiti dalla pioggia o impolverati in una soffitta dei ricordi perduti di un’estate lontana. “Estate. Sei calda come il bacio che ho perduto...” sussurra dalle nuvole Bruno Martino. Melodie, tentativi di neri italiani, di neri per caso. Quello autentico è “l’uomo in black” di Conta. Un big-man che non smarrisce sé stesso e il filo esistenziale solo quando è lì sul palco. Si scioglie sotto il cappello, gronda poesia in una gioia sudata. Calore dei riflettori, sole che scotta le mani del pubblico pagante che applaude, e lui dietro i suoi occhiali riflette una luce mai vista prima. Quella luce ora arriva fino a noi, a ricordarci che tutto potrà ancora accadere... Tranne che le note dorate di In a sentimental mood di Coltrane&Ellington possano trasformarsi solo in musica per orecchie di poveri, vecchi animali di questa terra. Sono note di un tempo ritrovato. E Giorgio Conta ha riscoperto la grande verità: “Nel jazz, il tempo ti (gli) è amico”.