Valerio Dehò italiano

L’attività di Giorgio Conta, giovane artista trentino, si alterna tra opere pubbliche, legate anche al mondo ecclesiastico, e una produzione “laica”, in cui finora si è segnalata soprattutto la serie di ritratti di jazzisti. Il suo lavoro procede su più livelli, sia per una scelta personale di distribuire le proprie energie tra la pittura e la scultura, caso invero non comune, sia perché il suo processo formativo è terminato, ma certamente la sua personalità artistica è ancora in via di completa definizione.

Figlio d’arte, il padre Livio Conta è uno dei più affermati scultori trentini, Giorgio ha sempre avuto davanti anche l’esempio paterno, che certamente resta un modello anche di complessità di temi e di tecniche diverse, mentre nello stesso tempo rimane altresì un limite da superare. In ogni caso, il giovane artista ha tutti gli strumenti per emergere e non sarebbe male se continuasse negli anni a portare avanti sia la pittura sia la scultura, perché sembra che i due linguaggi lo aiutino molto a trovare idee e a sondare nuovi aspetti della figurazione. Per esempio, in pittura la serie dedicata al jazz e ai jazzisti è molto indicativa del suo lavoro, perché la pittura questo mezzo espressivo rende perfettamente la forza, l’irruenza, la dinamicità dell’immagine. Le opere, pur rappresentando raffigurando dei musicisti, sono dedicate a singoli brani musicali. I titoli dei lavori rappresentano una sorta di grande antologia del jazz, quasi un campionario di standard, di brani ormai passati alla storia: Ornithology (Charlie Parker e Benny Harris), Birdland (Weather Report), Autumn leaves (Nat King Cole), Funky blues (Johnny Hodges), My one and only love (Guy Wood), Like someone in love (Jimmy van Heusen) e altri.  Tale aspetto appare particolarmente importante perché Conta vuole rappresentare la musica, non tanto l’aspetto di jazzisti famosi. Dietro questi lavori vi è la conoscenza della musica jazz e anche la certezza che è proprio la musica a rimanere, tra le tante immagini che scorrono lungo la storia. Si tratta di rappresentare comunicare l’emozione e di dare visualità alla composizione musicale che possiede sempre una sua elevata astrazione, come linguaggio, rispetto alle arti visive. Ma in questo la consapevolezza dell’artista sposta l’attenzione proprio sul fatto che suonare vuol dire dare sostanza alle emozioni, e la sua pittura in particolare ha nel segno il graffio dell’assolo, il suono graffiante di un sax o il gorgoglio di un trombone o la grande ritmicità del contrabbasso. Non è beninteso un’operazione di semplice traduzione, ma vuol dire ripartire dall’emozione per farla diventare espressione. In ciò Giorgio Conta riesce perfettamente e gli ultimi lavori pittorici appaiono di una grande forza di convincimento e di una matura fase compositiva. La stessa riconoscibilità degli artisti diventa qualcosa di assolutamente superfluo o può essere un gioco che segue la fruizione completa dell’opera. Per questo la serie delle opere dedicata al jazz non ha alcun intento illustrativo, ma parte dall’attenta analisi delle emozioni che la musica, quella musica, provoca nell’animo di chi ascolta. Del resto il jazz da un lato eredita l’anima astratta della musica, dall’altro ha origine popolare, parte dalla sensibilità diretta, dall’improvvisazione e quindi da quell’istinto e quella verve che danno vita a sempre nuove variazioni ai brani musicali. Il jazz è vitale, sempre. Per questo la scultura di Giorgio Conta, lavorando sulla rigidità della materia, legno o gesso, cerca una propria cifra interpretativa nella gestualità, nel dare allo sforzo e all’impegno del jazzista verso il proprio strumento la massima attenzione. Le figure umane sotto il vento del jazz ondeggiano come palme, lo sforzo di tirar fuori dei suoni dalla durezza metallica degli strumenti diventa una sorta di fatica di Sisifo che si rinnova a ogni brano. Molto efficace questo modo di leggere il rapporto con la musica in generale, proprio perché prescinde da qualsiasi criterio mimetico per approdare a una paradigmaticità emozionale, a un senso delle cose che diventa arte attraverso una potenza espressiva di grande intensità. Il miglior modo per giudicare questi lavori, nel loro complesso e nella loro differenza stilistica, sta proprio nel fatto che non ci si accorge che la musica non ci sia, che le nostre orecchie non siano impegnate nell’ascolto. Ma forse non è così. E allora vediamo attraverso gli occhi, siamo in piena sinestesia, e allora comprendiamo quanto le intenzioni dell’artista si siano realizzate e quanto impegno, passione e tecnica siano stati riversat i nella pittura e nella scultura che abbiamo di fronte.

Nella stessa rappresentazione delle montagne si avverte non solo l’ossessione verso un tema, che è il paesaggio, ma anche un pensiero fisso nei confronti di un problema: come riuscire a dipingere lo stesso soggetto in modi differenti. È anche chiaro che per Conta si tratta anche di cercare una forma di liberazione da qualcosa che gli appartiene geneticamente e che rappresenta il suo sguardo quotidiano. Sappiamo anche che Cézanne rappresentò molte volte la montagna Sainte-Victoire. Ogni volta che lo faceva la sua pittura faceva un passo in avanti, cioè andava nella direzione in cui lo portava la sua ricerca. Nell’artista trentino avviene qualcosa di simile perché non solo il paesaggio, e la montagna in particolare, cambia moltissimo a seconda delle stagioni, la sua fissità è apparente. In effetti la luce scava o livella i volumi continuamente, la sensibilità dell’artista sa cogliere le infinite variazioni e le trasmette sulla carta o sulla tela. Giorgio Conta predilige un segno forte, qualcosa che scavi la superficie pittorica così come la sgorbia e lo scalpello fanno altrettanto con il legno. E questo atto di incidere è importante perché a livello simbolico si tratta di tirare fuori, di scolpire la superficie bidimensionale per far emergere non solo le potenzialità del soggetto, ma anche gli affioramenti della memoria. Rispetto a Cézanne che ha dedicato innumerevoli capolavori alla montagna della Provenza, il caso di Conta ha dei risvolti non solo poetico-stilistici, ma anche personali. Gli studi sulla luce, sulle forme, sul bianco abbacinante della neve, sul colore cangiante della roccia sono un esercizio di stile che non è fine a sé stesso, ma vuole guadare in profondità la sostanza della mente. È anche un modo per tentare di superare il limite stesso

che la montagna pone, di andarle oltre: l’arte libera, rendendo un ostacolo una porta. Qualcosa di simile tentò il Sironi degli anni cinquanta, che aveva una tavolozza che ricorda questa durezza, questa capacità di penetrare gli elementi. Le stesse colature accentuano una visione dinamica dei gruppi di montagne, tendenza a scavare e interventi liquidi danno l’idea di un’opera in continuo divenire. Vi sono sorprendenti accenni di liquidità, di disgelo improvviso o di contemplazione del paesaggio dietro una lastra di vetro solcata dalla pioggia. È tutto molto bello e inusuale quando l’equilibrio non viene messo in discussione da una composizione troppo regolare. Del resto, è un po’ come nel discorso del jazz, a Giorgio Conta interessa l’emozione e l’instabilità tra la percezione fisica e la sua risonanza interiore, come direbbe Kandinskij. Per questo le sue montagne hanno l’incanto di un paesaggio romantico inteso come conflitto visivo in itinere, come rapporto denso tra il vedere e il sentire. Non propriamente drammatiche, sono sottilmente inquietanti come le muse di De Chirico. Naturalmente non sono minimamente oleografiche, sono intense come un pensiero da cui non ci si riesce a distogliere. Sono stati d’animo e forze terrene con cui confrontarsi continuamente, con cui dialogare con rispetto, da pari a pari. “Voglio vedere le mie montagne” è la celebre frase pronunciata da Segantini sul letto di morte, ma una let- tura contemporanea come quella di Giorgio Conta non celebra un’affezione, uno stato d’animo che definisce una volta per tutto il tema delle origini. È un tentativo di andare oltre e di far diventare le montagne un universo in espansione e non chiuso, un’origine che è confine espanso e possibilità di guardare anche il proprio paesaggio come finalmente estraneo e altro.

Le recenti sculture rappresentano una fase di affinamento del lavoro tanto nella composizione del corpo umano quanto nel tentativo di interrompere continuamente la superficie per creare anse, cavità, contrasti che amplificano la levigatezza della figura centrale. Sembra che l’artista avverta forte l’esigenza di uscire fuori dai canoni per tentare una strada solitaria, originale, con maggiore urgenza di quanto finora realizzato. La solennità delle figure deriva da un lato dalla frequentazione della scuola d’arte di Ortisei, con giovani maestri come Walter Moroder, Peter Demetz o il più giovane Gehard Demetz, diventati scultori riconosciuti internazionalmente, dall’altro dal suo percorrere la strada e la palestra dell’arte sacra. Questa rimane una scuola importante sia perché si tratta di una committenza pubblica, sia perché in ogni caso ci si trova a fare i conti con una tradizione e con dei modelli ampiamente consolidati. Ma anche in questo caso Giorgio Conta punta a una propria espressività, esaltando i particolari cui tiene particolarmente, come le mani o i piedi, e creando delle vere e proprie metonimie. L’esaltazione della figura anche nell’arte sacra non solo è funzionale al racconto, ma è altresì rispondente alle finalità richieste. Per esempio, in una Madonna con bambino il manto che si apre come una fenditura nella roccia e avvolge il piccolo Gesù diventa un parallelo con opere per così dire profane, come ne La ragazza con accappatoio. Nel senso che nonostante la diversità di committenza e gli inevitabili condizionamenti di opere dedicate a spazi consacrati Conta opera sempre attorno a un approfondimento del suo modo di dipingere e scolpire, non si fa condizionare. Del resto, anche per fare dei paragoni molto alti, non è che Caravaggio o Guido Reni si sentissero sminuiti se eseguivano delle opere a richiesta. Anzi, la committenza e le regole relative alle commissioni hanno sempre esaltato le capacità degli artisti, sono state delle prove di capacità di esecuzione e di inventiva. In particolare la scultura di Giorgio Conta, anche con quella frammentazione di alcune parti ricomposte in situazioni non certamente canoniche e naturalistiche, è un tentativo di analizzare e ricomporre la scultura continuamente in quanto linguaggio. Anche il fatto che alcuni dettagli siano perfettamente scolpiti o plasmasti, e che ci siano delle zone lasciate ancora allo stato di forma potenziale, indica non solo una capacità analitica notevole, ma anche il desiderio di raggiungere una soglia, un equilibrio tra gesto e forma, tra figura e informale, tra naturalismo e aniconicità.

Nella scultura questo procedimento è essenziale, molto ben riuscito. Del resto non rinuncia mai alla stilizzazione, e spesso affronta delle sculture complesse, dei veri e propri gruppi. Nelle singole si avverte sempre una ricerca di silenziosa religiosità, di una forma di assoluto privato che lega molto bene con l’arte dedicata alle occasioni sacre. Il corpo femminile di una ragazza con accappatoio in alcune versioni sia in legno (o terracotta) sia in gesso dà particolare significato alla sua capacità di sintetizzare la levigatezza della figura femminile, la proporzione delle parti, le membra affusolate, con il manto/accappatoio che avvolge e scopre nello stesso tempo. Perfetto è l’effetto di riuscire a coniugare il nudo con l’abito che diventa un luogo, un’ambientazione per l’apparizione della bellezza. Gli esiti di questo contrasto perfettamente armonizzato sono sicuramente importanti. Ma vi sono anche opere dove l’equilibrio compositivo, come nell’opera Insieme, in cui le figure si inseriscono in un portale aperto, quasi un arco che descrive lo spazio come dedicato all’azione specifica. Anche in altre sculture l’artista predispone un contrasto, uno sfondo, fatto di segmenti verticali che danno dinamicità alle forme con l’intenzione di annullare quasi la differenza tra pittura e scultura.

Queste sono tutte strade, spazi di transito verso uno stile sempre più personale, verso una capacità di riconoscere e riconoscersi che segna la maturità di ogni artista degno di questo nome.